GIORGIO GABER Vivere, non riesco a vivere ma la mente mi autorizza a credere che una storia, mia positiva o no, è qualcosa che sta dentro la realtà"
Il corto circuito che uno spettacolo di Giorgio Gaber metteva in moto era gesti e canzone, impeto civile e divertimento. Non è semplice spiegarlo. Alla naturale precarietà del nostro difficile tentativo di raccontare la musica, si aggiungono altri livelli, parlando di Gaber. Chi non ha avuto la fortuna di assistere a un recital del Signor Gaberscik difficilmente potrà comprendere il coinvolgimento fisico che il suo teatro-canzone sapeva ingenerare. I recital che Giorgio portava in giro per i teatri negli anni 70 erano overdose di intelligenza, perché sferzavano come una sega circolare costumi in irrefrenabile mutazione. Ma lo facevano utilizzando insieme la parola e il corpo (oltre che la musica). Quegli spettacoli, sia quelli interamente di Gaber, sia quelli allestiti insieme al sodale di 30 anni Sandro Luporini, sono pietre miliari, verrebbe da dire sociologiche, per la loro capacità di mettere a nudo, con pudore e sottigliezza, la tragicità ordinaria dell'esistenza e del vivere insieme. Quanto sia importante l'aspetto corporeo e fisiologico, nell'arte gaberiana, è indiscutibile. Lui, lì, sul palco, un guitto nero, con quei suoi tentacoli - le braccia, il naso, le gambe; le smorfie, i tic, i ghigni, i sorrisi timidi. Un corpo parlante.
Il canzoniere di Giorgio Gaber attraversa quarant'anni cruciali di storia italiana. Una compenetrazione ineguagliata tra pezzi di vita pubblica e privata, tra l'ansia di chi si è sforzato tutta la vita di fare i conti con la misura della propria inutilità, e la rabbia di un maverick meneghino che non ha mai permesso a nessuno di farsi accalappiare. Lui diceva sempre quello che sentiva vero; lucido, affilato.
Già nel 1970 (in "Il Signor G dalla parte di chi", nell'album concept Il Signor G), Gaber aveva il coraggio di cantare, a proposito dei movimenti giovanili, che, sì, hanno ragione perché sono giovani, ma, alla fine, l'uomo G si chiede: "Me ne importa poi tanto di queste cose?". Lui intendeva "dentro, per la mia vita, come fatto fisico". Ecco un primo esempio di poetica della fisiologia. Ne è costellato tutto il repertorio di Gaber. "I borghesi" (dall'album omonimo del 1971) parte dall'assunto di un malessere fisico che produce strane allucinazioni ("Quand'ero piccolo non stavo mica bene"). Sono le allucinazioni che hanno le persone sane, finché sono sane. Ed è soprattutto in Far finta di essere sani che Gaber esprime in modo perfettamente organico tutto ciò. Cerco un gesto, un gesto naturale è il tentativo di un approdo rassicurante, che è prima di tutto del corpo e poi della mente, perché il corpo è più saggio ("Cerco un gesto, un gesto naturale/ Per essere sicuro che questo corpo è mio"). L'impotenza esprime la difficoltà di rapportarsi all'altro in una relazione che significhi realmente qualcosa, partendo da quello che è il primo postulato di Gaber: la propria inadeguatezza, la propria insufficienza. Mentre "La marcia dei colitici" presenta il campionario di un'umanità di "gastritici, stitici, psicosomatici", avanguardia colitica di coliticizzati.
Nello stesso lavoro Gaber raccontava, in "L'uomo che perde i pezzi", utilizzando l'allegoria del corpo, la perdita delle certezze, che si staccano una alla volta: l'ascella, la coscia, il malleolo, il cuore. Lo smarrimento di sé è prima di tutto perdita di contatto con il reale, con quel nocciolo corporeo che è per Gaber del tutto preminente, in un'epoca che ha reso tutto sovrastruttura e che ha iper-intellettualizzato ogni percezione. Smarrimento che sarà addirittura perdita del nome, nel monologo surreale Angelieri Giuseppe (in Anche per oggi non si vola).
Un decennio dopo, in Io se fossi Gaber, la riflessione sull'identità sarà legata al cosiddetto look ("Da un po' di tempo non so più come vestirmi", da "La vestizione"), soffermandosi sul contagio delle masse e sulla difficoltà di rimanere un individuo senza farsi opacizzare dalle mode ("La massa").
Torniamo indietro, al periodo aureo degli anni 70. Nel brano "Far finta di essere sani" (un vero manifesto) si vagheggia, smascherando le contraffazioni e l'ipocrisia delle ideologie, "una donna normale che riesce anche a esser fedele, comprando sottane, collane e creme per mani". La "sicurezza degli oggetti", i rituali della normalità, l'elegia della medietà, dieci anni prima di Nanni Moretti: più di un punto in comune con il regista di Monteverde. L'integrità irriducibile, l'asciuttezza di uno sguardo disincantato e amaro, quel moralismo di una minoranza condannata a rimanere tale dalla propria sintassi etica.
La sanità codificata di Giorgio Gaber è l'ancoraggio delle cose reali, concrete, mentre l'impegno nelle categorie "pubbliche" rappresenta una scappatoia - i testi gramsciani, i gruppi di studio, la lotta di classe -, scialuppe provvisorie, salvataggi solo consolatori; e le idee sono soltanto astrazioni. Gaber canta in uno dei suoi momenti più alti: "Se potessi mangiare un'idea avrei fatto la mia rivoluzione" ("Un'idea", da Dialogo tra un impegnato e un non so). Le idee non si possono toccare, non si vedono. Ognuno le manipola come crede: il razzista predica antirazzismo, il tradizionalista si veste di avanguardia psico-pedagogica. Tutto è gratis finché è solo idea - la coppia aperta, il femminismo, la psicanalisi. Finché sono concetti che si hanno solo in testa, ma non nella pelle. Il corpo, invece, si vede. Il corpo parla, non può mentire (ricordate i tic dell'antica "Goganga"?).
In Anche per oggi non si vola il cantattore torna sul tema in modo ancora più esplicito. Il corpo stupido è la storia di una notte trascorsa con una donna della quale "condividere la linea", dalle buone letture. "Era perfetta ma non ho avuto voglia di toccarla", canta Gaber. "Com'è corretta l'ideologia/ Com'è ignorante la simpatia/ Io purtroppo non riesco a istruire il mio tatto/ Non riesco a politicizzare l'olfatto/ Ci ho il corpo stupido". Gaber liberalizza il trionfo dei sensi e della sincerità, arrivando a ululare come Marcello Mastroianni con Sofia Loren. In "L'odore", il protagonista è assediato da una persistenza olfattiva che non va via. Non basta lavarsi (inevitabile riandare allo "Shampoo" e al candido trionfo di schiuma, sciacqui e risciacqui); la puzza persiste. Quasi che la grevità ricordasse continuamente le sue leggi alla presunta superiorità intellettuale delle sovrastrutture e delle formule: "Sciacquoni, sciacquoni, forza, cessi!" ("È sabato", da Dialogo tra un impegnato e un non so).
Dopo una lunga carriera di successo, tra Sanremi, varietà Rai del sabato sera, duetti eccellenti e grandi hit, il Signor Gaberscik era convinto che il suo ruolo fosse quello del giullare: "Devo fare per forza il pagliaccio/ Devo solo fare divertire/ Suona chitarra, falli divertire/ Non farli mai pensare" ("Suona chitarra", da Il Signor G). Ma questo giullare pensoso ci ha illustrato l'Italia dell'ultimo Novecento più di molti articoli o saggi specializzati.
Con lo sferzante sarcasmo di un Brel, Gaber sputò nei teatri la sua poetica dissacrante anti-borghese, anti-clericale, ritratto di bigotteria, sciacallaggio, ipocrisia. Ma Gaber non sposa nessuna ideologia: il suo sguardo è impietoso anche nei confronti delle mode obbligatorie della sinistra. Fu tra i primi a prendere le distanze da certe ideologie post-68, pur rimpiangendo quello slancio. La sua voce è quella di un individualista senza pace, che non riesce a tacere su nulla. Nutre una feroce antipatia per le masse omologate e pappagallanti, Gaber. In "L'uomo non è fatto per star solo", da "Polli di allevamento", dice: "Le cose buone non fanno epidemia/ è un fatto biologico/ L'intelligenza non si attacca/ La scarlattina sì/ Le persone che si aggregano hanno incorporato un distillatore che elimina via tutto il buono e lascia passare la merda pura". Fiducia dolente nelle esperienze individuali, enorme sfiducia nell'aggregazione e nelle collettività. Questo è un altro dei punti cardinali dell'etica gaberiana. Lo troviamo continuamente, nei lavori già citati, ma anche ne "I cani sciolti" (da Io come persona) fino a "Verso il terzo millennio" (da La mia generazione ha perso). A patto di non confondere il falso senso di ebbrezza che dà il consumismo d'allevamento - la libertà obbligatoria -, con la libertà vera, quella che non consiste solo "in uno spazio libero", ma nella partecipazione ("La libertà"). "Ma come, con tutta la libertà che avete, volete anche la libertà di pensare?" ("Si può", da La mia generazione ha perso).
Alternando con straordinaria intensità musica e monologhi, Gaber ci ha insegnato molto: combattuto tra vita e nevrosi, tra benessere e scoramento (ha dedicato anche molte canzoni al suicidio: "Il signor G sul ponte", "Il suicidio", "Il dilemma"), cantando l'illogica allegria e il "diritto di vivere il presente". Mettendo a nudo gli intralci della coerenza e le asperità dell'onestà intellettuale e dell'indipendenza. Cantando la sessualità e il rapporto di coppia con maestria balzacchiana, coniugando le doti del caratterista con l'algebrica puntualità del moralista. Fu un intellettuale senza cattedra.
Lo stupore, l'adesione, la rabbia, il dolore, il desiderio. Sapeva, Giorgio, che "tutto va in rovina" ("L'illogica allegria", da Pressione bassa); che le cose diventano "risapute e stanche". Ma il suo non fu nichilismo: fu piuttosto un'iper-consapevolezza. La sua amarezza era divenuta sempre più insanabile. Il suo ultimo album in vita, La mia generazione ha perso, è un testamento di programmi e ideali falliti. Il postumo Io non mi sento italiano annuncia i medesimi toni. Gaber, che fu tra i primi ad allontanarsi dal settarismo delle ideologie, mal si rassegna allo sperpero degli ideali e dell'impegno civile d'un tempo. S'incazza più di sempre, perché non vede "più nessuno che s'incazza". Tutto è annacquato. "Ma questa è un'astrazione/ È un'idea di chi appartiene/ A una razza in estinzione". La sua.
Né destra, né sinistra, per Gaber ("Destra-Sinistra"). Gli era geneticamente inibita l'adesione a un'ideologia, l'appartenenza precostituita (se non nel passato di "Qualcuno era comunista"). Non riusciva a condividere un sentimento di massa. Da varie parti gli viene mossa l'accusa di qualunquismo. Forse Gaber fu qualunquista, se questo significa il rifiuto dell'anestesia, se comporta l'obbligo di tenere il cervello in azione, lo spirito critico vivo, combattendo la stupidità e il conformismo, da qualunque versante provengano. "Oppure sono io che non capisco più un cazzo" ("Timide variazioni", da Polli di allevamento).
Giorgio Gaberscik: un mulino a vento contro l'idiozia.
Abbiamo perso una voce insostituibile. Un pensatore in meno in grado di raccontarci in che mondo (spudorato e assurdo) viviamo.
"E tu mi vieni a dire io amo, come se l'amore. E tu mi vieni a dire io muoio, come se la morte. E tu mi vieni a dire io soffro, come se il dolore."
(da "Il Mucchio Selvaggio", n. 518)

 

Fonte: Ondarock

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